Il gigantesco conflitto di interessi della Cop22
Un gigantesco conflitto di interessi grava sul Summit di Marrakesh, nei corridoi della Cop22 c’è puzza di petrolio. Ai negoziati, oltre ai delegati di 200 nazioni e Ong, è stato garantito pieno accesso alle lobby del fossile, tramite i rappresentanti di decine di multinazionali. Raccolte, dal Corporate Accountability International, 500.000 firme per chiedere a l’UNFCCC, l’organismo delle Nazioni Unite che muove i fili delle COP annuali, che si doti al più presto di un serio regolamento per arginare lo strapotere delle lobby.
Com’è stato possibile? La partecipazione della lobby fossile è, di fatto, non solo tollerata bensì incoraggiata da alcuni Stati, tra cui gli Stati Uniti, l’Australia e l’Unione Europea. Messi di fronte alla necessità di limitare i conflitti di interesse, questi paesi hanno nascosto sotto il tappeto la questione, adducendo come motivazione la necessità che il summit sia il più “inclusivo” possibile e sostenendo che è troppo complesso dare una definizione chiara e univoca di “conflitto di interesse”. La richiesta, avanzata a maggio durante una riunione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e rimasta lettera morta, proveniva da un gruppo di Stati che rappresentano il 70% della popolazione mondiale.
Cop15 dall’accordo “imperfetto” all'”ambizioso” della Cop21
Obama: “rischiamo la catastrofe ambientale” e la Trumpfobia. Settembre 2009 – All’Onu il forum sui cambiamenti climatici. Presenti, oltre al segretario generale Ban Ki-moon, l’ad di Eni Paolo Scaroni, unico italiano, ma anche il nobel Al Gore. Dalla Cina parte la dichiarazione di svolta ecologica. “La minaccia è grave, urgente e crescente: se non agiremo rischiamo di consegnare alle future generazioni una catastrofe irreversibile”. Il presidente americano Barack Obama lanciò l’allarme al vertice Onu sul clima a New York. Un vertice aperto dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, che rimproverò la comunità internazionale per la “lentezza glaciale” dei negoziati verso un nuovo trattato internazionale che sostituisse il protocollo di Kyoto.
Ban disse che “abbiamo meno di dieci anni per evitare gli scenari peggiori” causati dal surriscaldamento del pianeta e avvertì che “sull’Artico i ghiacci potrebbero sparire entro il 2030 e le conseguenze sarebbero sentite dai popoli di ogni continente”.
Il cambiamento climatico colpisce soprattutto i Paesi meno sviluppati e in particolare l’Africa, dove “il cambiamento climatico minaccia di cancellare anni di sviluppo – ha detto -, destabilizzando Stati e rovesciando governi”. Ban ha lanciato un appello ai Paesi industrializzati, invitandoli “a fare il primo passo”, perché così “altri adotteranno misure audaci”.
Il nuovo trattato deve includere “obiettivi per la riduzione di emissioni entro il 2020 e supporto finanziario e tecnologico” ai Paesi in via di sviluppo, cioè quelli che “hanno contribuito di meno a questa crisi ma hanno sofferto di più, e per primi”.
Ban Ki-moon – Un fallimento alla conferenza sul clima di Copenaghen, (ndr dicembre 2009), sarebbe moralmente ingiustificabile.
Cop15 | Copenaghen L’accordo raggiunto al vertice climatico di Copenhagen fra Stati Uniti, Cina, India, Brasile e Sudafrica, fu un accordo a metà. Dopo che Barack Obama salì sull’Air Force One alla volta dell’America, l’assemblea plenaria dei 192 paesi fu convocata alle 3 del mattino per approvarlo. Siccome era necessario il voto unanime, l’opposizione di alcuni (come Sudan, Venezuela e Tuvalu) fu scavalcata soltanto alle 10:30, con un trucchetto diplomatico: invece di approvare il «Copenhagen Accord» raggiunto “privatamente” fra cinque paesi, il consesso planetario semplicemente «prese atto» dell’intesa.
Un’intesa dimezzata e tutt’altro che ambiziosa anzi al ribasso. Nonostante il disappunto, l’Europa e il Giappone hanno deciso di appoggiarla, considerandola comunque un passo avanti rispetto al fallimento che si andava prospettando. «Un cattivo accordo è meglio di nessun accordo», sentenziò il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, durante la conferenza stampa.
2016, la Trump Fobia dei cambiamenti climatici
Al di là delle dichiarazioni di facciata di Kerry, che ha assicurato l’impegno forte dell’amministrazione Obama fino all’ultimo respiro della stessa fatte in questi giorni al Summit di Marrakech. John Forbes Kerry, segretario di Stato degli Stati Uniti, avrebbe confermato che la maggioranza degli americani è quella che va nella direzione di Parigi, così come che quella strada è stata già imboccata dall’economia Usa.
Cosa pensa Donald Trump del cambiamento climatico?
Trump: “I’m not a big believer in man-made climate change”, questa la dichiarazione rilasciata in un’intervista al Washington Post nel marzo di quest’anno.
«Non credo molto nel cambiamento climatico di origine antropica», disse il candidato-imprenditore al Washington Post. Inoltre insinuò che il concetto di global warming sia stato «inventato dai cinesi per colpire la produzione statunitense», e che invece il pianeta si starebbe raffreddando. Ha anche liquidato l’accordo di Parigi come «una delle cose più stupide che abbia mai sentito nella storia della politica».
Tempi duri per l’EPA, l’Agenzia USA di protezione ambientale. Secondo Trump, infatti, investire nella conservazione sarebbe solo uno spreco di denaro. E le rinnovabili? Un crimine contro l’umanità, naturalmente. I parchi eolici sarebbero «disgustosi» e pericolosi per la salute delle persone, «una piaga per le comunità e la fauna selvatica».
Mar Glaciale Artico, iniziato il conto alla rovescia
Nella foto, grandi blocchi di ghiaccio marino in fusione nelle acque al largo della Groenlandia, in un’immagine del luglio 2015 dal satellite Aqua della NASA. Fotografia da Jeff Schmaltz / NASA.
Mai come quest’anno il Mar Glaciale Artico è stato così libero dai ghiacci. Secondo alcuni studiosi entro un anno potrebbe essere superato il punto di non ritorno, con l’instaurazione di fenomeni meteorologici irreversibili dalle conseguenze imprevedibili.
I rilievi satellitari non mentono: la scomparsa di una delle ultime regioni incontaminate del pianeta è sempre più vicina. Secondo l’ultimo report del National Snow and Ice Data Centre degli Stati Uniti, al 1° giugno l’estensione dei ghiacci che ricoprono il Mar Glaciale Artico è risultata pari a 11,1 milioni di chilometri quadrati, segnando una riduzione del 5% rispetto al precedente minimo del 2004 e addirittura del 12% rispetto al valore medio di 12,7 milioni degli ultimi trent’anni, relativamente allo stesso periodo.
Sebbene la maggioranza delle stime siano più prudenti, posticipando la completa scomparsa del ghiaccio marino attorno al 2030, nella comunità scientifica c’è consenso sul destino del Polo Nord. Così come sulla rapidità e irreversibilità del processo di fusione. A causa del fenomeno noto come “amplificazione artica”, l’Artide si surriscalda due volte più velocemente di qualsiasi altra regione dell’emisfero settentrionale.
Nel Mar Glaciale Artico gli effetti del cambiamento climatico non sono limitati alla fusione della banchisa: la sostituzione di superfici chiare – e quindi riflettenti – dei ghiacci con quelle scure delle acque sottostanti determina un maggiore assorbimento della radiazione solare, innescando un processo autoalimentato che riscalda ulteriormente la regione.
“Al contrario della calotta della Groenlandia, la fusione della banchisa non innalzerà il livello medio del mare – spiega Stefano Aliani, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine a capo del progetto strategico Artico del CNR – poiché questo ghiaccio fa già parte del volume dell’oceano”. Più che di massa, il completo scioglimento porrebbe un problema di natura energetica, intaccando il bilancio di calore. “Assisteremmo a un cambiamento climatico e meteorologico dalle conseguenze imprevedibili – prosegue Aliani – che provocherebbe lo spostamento della cella polare e di conseguenza lo stravolgimento delle correnti marine e atmosferiche”.